Nostalgia del paradiso

Nostalgia del paradiso

Se oggi pensiamo a un giardino pensiamo subito a un luogo fresco e ombreggiato in cui ci si può riposare durante le giornate calde, dove leggere un libro mentre si ascolta il canto degli uccellini o dove si nascondono i bambini quando giocano.

Ma il giardino, ancora oggi, ha una forte valenza sociale: è spesso utilizzato come luogo preferenziale per organizzare feste e buffet durante la bella stagione o fare semplicemente cene e barbecue informali con gli amici durante le calde serate estive.

Quale ruolo ha assunto questo luogo, delimitato e recintato per definizione, nel medioevo?

Nel saggio “Nostalgia del paradiso”, scritto da Franco Cardini e Massimo Miglio, gli autori compiono un viaggio nella storia e illustrano alla lettera quali siano stati i modelli, anche filosofici e letterari, di riferimento e come si siano evoluti i giardini nel corso dei secoli.
Nell’immaginario comune se si pensa alle parole “giardino medievale” subito affiora alla mente l’immagine del chiostro racchiuso dentro alle mura monastiche, ovvero l’hortus conclusus quadripartito.
Ebbene sì, questo è uno degli esempi di giardino di quel tempo, in cui quasi tutti quelli che conosciamo erano prettamente di natura religiosa. L’hortus conclusus è appunto, come dice la parola latina, un orto che però ha un un perimetro, un limite spaziale ben definito.  E’ un luogo in cui “nasce sempre qualcosa”, secondo le parole di Isidoro di Siviglia, autore dell’inizio del VII secolo. A livello etimologico infatti la parola ‘orto’ deriva dal verbo latino ‘orior‘, ovvero ‘nascere’.


Secondo una sapiente scelta della disposizione delle colture, l’uomo del monastero era in grado di “piegare la natura, in modo di farle mimare un’eterna primavera”, acquistando così una capacità teomimetica.
Secondo quanto detto, il giardino diventa una rappresentazione terrena dell’Eden e anche della Chiesa; ha infatti al suo centro l’albero della vita (l’arbor vitae, che rappresenta il Cristo) da cui partono i quattro fiumi, ovvero, per allegoria, le quattro virtù cardinali (che sono prudenza, temperanza, fortezza e giustizia), che richiamano anche i quattro fiumi descritti nel primo libro della Bibbia.
“Anche le erbe dell’orto hanno i loro significati allegorici: cipolla e aglio indicano la corruzione della mente, il rafano esprime la continenza contro le suggestioni del diavolo, le lattughe sottolineano la necessità di evitare i perversi piaceri della vita; anche il prezzemolo, il coriandolo, e il sedano hanno significati allegorici”. (pag. 13).

All’interno dei chiostri benedettini era generalmente presente anche un pozzo che, oltre ad assolvere alle necessità pratiche, non è difficilie intuire fosse un’allegoria della ‘fons vitae ovvero, ancora una volta il Cristo, come fonte di vita.
Ma se il giardino, per definizione recintato e racchiuso dentro alle mura, è il luogo in cui tutto è ordinato, il bosco rappresenta, per opposizione, l’incolto e l’ignoto. A questo proposito si ricorda la celeberrima ‘selva dantesca‘, che il sommo poeta fiorentino definisce come ‘oscura, aspra e forte’, quindi carica di significati allegorici riferiti al peccato e al dolore.

Il volume, oltre agli esempi di matrice cristiana, presenta nel corso dei capitoli anche i giardini cortesi, presenti nei castelli o nei palazzi dal XII secolo. Grazie anche alla diffusione del “Roman de la Rose”, opera fondamentale per la filosofia del giardino duecentesca, questo luogo assume una valenza fiabesca e quasi magica, in cui si svolgono corteggiamenti e chiacchiere amorose. E’ proprio il giardino che fa da sfondo alla storia d’amore di Erec e Enide, descritta da Chrétien de Troyes. L’autore “propone la forma archetipica dell’inviolabile giardino incantato, destinato poi a ritrovarsi in un’infinità di fiabe: inviolabilità, eterna primavera, abbondanza di erbe salutari e canto degli uccelli”. (pag. 61)


“La poesia dei trovieri franco settentrionali e dei trovatori francomeridionali celebra l’esplosione della natura risvegliata a primavera , il bel maggio guerriero e amoroso, la rosa fiore dei fiori, che è il fiore per eccellenza dell’amore”. (pag.70)

Gli autori non si dimenticano nemmeno di citare le descrizioni poetiche petrarchesce dei giardini di Vaucluse e i suoi curatissimi elenchi in cui erano presenti tutti gli elementi che caratterizzavano e ornavano questi spazi di piacere e svago. Se ne citano alcuni: “fior vermigli e bianchi”, “aure soavi”, “chiare fontane e verdi prati”, “frutti, fiori, herbe et frondi”. (pag.100)

Il poeta aretino non si limitò però a far costruire più volte il giardino in Francia nei pressi del fiume Sorga, che esondò in più occasioni, distruggendolo, ma si adoperò lui stesso con dedizione e costanza a seminare e trapiantare erbe e arbusti, annotando puntualmente tutte le caratteristiche della pianta, del sito, le condizioni climatiche, il periodo dell’anno e la posizione della luna. Ovviamente, cosa ancor più interessante, riportò sempre anche il risultato.

Curiose e degne di nota le pagine dedicate Boccaccio che, oltre ad ambiente molte novelle del suo Decamenon in giardini e ambienti bucolici, lontani dalla città fiorentina, disegna di suo pugno molte scene.

Nei cosiddetti “secoli bui”, che furono tutto tranne che tali, non mancarono nemmeno trattati sulle piante, meglio noti come ‘erbari’, che erano sostanzialmente degli inventari delle piante conosciute con descrizioni delle proprietà farmacologiche presunte. A volte, oltre alle descrizioni scientifiche , erano aggiunte note a carattere mistico-allegorico che creavano delle correlazioni tra le suddette specie e vizi o virtù. Questi testi sono oggi fondamentali per l’interpretazione di molti passi della Commedia dantesca.